“Vincere oppure perdere”: 100 anni passati dalla fine della prima guerra mondiale del 15-18.

Il 24 maggio del 1915 l’Italia entrava nella Prima Guerra mondiale al fianco di Francia e Gran Bretagna, contro le armate dell’Austria-Ungheria.

“Vincere oppure perdere”: 100 anni passati dalla fine della prima guerra mondiale del 15-18.

Il 24 maggio del 1915 l’Italia entrava nella Prima Guerra mondiale al fianco di Francia e Gran Bretagna. Dal Forte Verena sull’Altopiano di Asiago partiva il primo colpo di cannone verso i territori controllati dall’Austria-Ungheria, iniziando così il bombardamento delle fortezze nella piana di Vezzena. Per ricordare, a distanza di un secolo, il sacrificio delle migliaia di soldati partiti per il fronte e mai più tornati e le sofferenze subite dalle popolazioni civili del Veneto, Trentino e Friuli, il Consiglio dei Ministri ha disposto un minuto di silenzio e raccoglimento su tutto il territorio nazionale, domenica 24 maggio alle ore 15.

La prima Guerra mondiale, a cui hanno partecipato circa 6 milioni di italiani, ha segnato profondamente la storia sociale, politica, economica e culturale del nostro Paese con 750.000 morti tra caduti in guerra (680mila) e civili. Il conflitto è costato 157 miliardi di lire (il PIL in quel periodo era di 95 miliardi), impegno economico che sale a 213 miliardi comprensivo di onere finanziario che ha pesato sul bilancio dello stato per 62 anni dalla fine della guerra, cioè fino al 1980.

La prima guerra mondiale è stata e rimane uno dei miti fondativi dello stato-nazione, soprattutto nei paesi vincitori. Gli anni tra il 1914 e il 1918 sono stati avvolti da un’aura di sacralità che ancora oggi si può cogliere nei monumenti, nei cimiteri e nelle cerimonie che ricordano la grande guerra.

“Lungo la strada che andava a Codroipo, e che io percorrevo spesso per ragioni di servizio, non mi accorsi mai che esistessero delle trincee”. L’attacco austro-tedesco la notte del 24 ottobre fu davvero imprevisto e sorprendente. Il blitz consentito dall’afflusso di fresche truppe tedesche smobilitate del fronte russo fu curato nei dettagli mesi prima. Sul fronte occidentale del Trentino si finse un’offensiva fasulla mostrando l’arrivo di fanti e artiglieria tedesca, quando tutto invece venne poi segretamente spostato ad Est, dove a molti soldati tedeschi venivano perfino fatte indossare giubbe militari di soldati austriaci per confondere gli italiani in vedetta.

In poche ore di martellante artiglieria, di lancio di gas, gli austro-tedeschi concentrarono l’attacco della fanteria in alcuni punti precisi dove non trovarono che pochissima resistenza. Giocoforza gli attaccanti oltrepassarono le linee italiane, accerchiarono la seconda armata del generale Capello e misero in fuga gli altri corpi d’armata del fronte orientale. Un fuggi fuggi durato 150 chilometri fino al Piave che le testimonianze dei soldati ricordano come “caos”, “mancanza di collegamenti con gli ufficiali superiori”, cosicché per evitare la prigionia “avevano preso la strada delle retrovie”. E se Cadorna tradusse tutto come viltà del singolo, corrotto dal bolscevismo e pacifismo imperante tra operai e contadini diventati soldati, l’impreparazione strategica e strutturale dell’esercito nel punto dello sfondamento pare un dato di fatto evidenziato proprio da chi quella guerra la subì in prima persona e non dal comando generale di Udine.

Anche nelle testimonianze rese alla commissione dai sottufficiali e dagli ufficiali inferiori, quelli più vicino nelle trincee alle truppe che agli alti comandi, il senso non cambia: impreparazione logistica nel formare retrovie e mancanza di ordini precisi dal comando (che arrivarono sostanzialmente solo il 28 ottobre). Un tenente parlò di “qualche fucilata al massimo” e che i suoi soldati poi erano stati aggirati dagli austriaci, un capitano di fronte ai suoi soldati spiegò che “egli e i suoi uomini rimasero senza ordini, in balia di loro stessi” quindi vennero via tutti assieme.

Salendo di grado e arrivando fino a quei generali che facevano fucilare i “fuggiaschi”, o come il generale Rossi che da cavallo ne picchiava alcuni con il suo bastone, l’osservazione della disfatta di Caporetto cambia di senso. Il generale Di Giorgio parlò, riferendosi ai fanti italiani, di “folla ributtante”. Il generale Ferrero addusse motivazioni d’ordine in strada: “I carabinieri non avevano predisposto una buona polizia stradale”. Ma ci furono generali che alla commissione confessarono che in quelle ore “all’esercito mancava tutto”, dai viveri alle munizioni e perfino i cavalli. Insomma la disfatta e ritirata da Caporetto secondo i risultati delle testimonianze rese alla commissione d’inchiesta sembrano apparire ben altro rispetto alle motivazioni che Cadorna rese pubbliche anche successivamente alla sua “sostituzione” con il generale Armando Diaz, negli infiniti memoriali pubblicati a guerra finita e durante gli anni del fascismo con Mussolini che lo elogiò celebrandolo “maresciallo d’Italia”.

Per anni il conflitto è stato sottratto ad analisi obiettive ed è stato letto solo attraverso la lente deformante dell’eroismo, dell’onore, della patria, della propaganda bellica. In Italia la letteratura ne ha affrontato i tabù, spesso con fastidiose conseguenze per gli autori: Emilio Lussu fu accusato di disfattismo e antipatriottismo per Un anno sull’Altipiano, mentre La rivolta dei santi maledetti di Curzio Malaparte incappò nella censura e fu sequestrato. Negli anni settanta sono stati pubblicati saggi critici e analisi storiche rigorose e obiettive, come quelli di Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, Enzo Forcella, Alberto Monticone e Piero Melograni.

Tuttavia, con la ricorrenza del centenario della fine della grande guerra e le celebrazioni previste per il 4 novembre, il velo di retorica che con tanta fatica era stato sollevato è tornato ad avvolgere quegli anni. Ci sono state iniziative storicamente accurate, ma la propaganda nazionalista e militare nel tempo si è riappropriata dell’evento. Mentre fiction tv semplicistiche come Il confine e Fango e gloria – andate in onda su Rai1 – hanno favorito il ritorno di una visione patriottica della storia.

Da questa visione sono stati cancellati episodi sgraditi alla retorica ufficiale come le renitenze, il pacifismo, le fraternizzazioni tra nemici, le diserzioni, gli ammutinamenti, le rivolte. Pagine che però sono fondamentali per capire meglio quell’immensa carneficina che fu la prima guerra mondiale, a cent’anni dalla sua fine.

100 anni di ricordi e di memoria trascorsi con cerimonie solenni, non ci rimane che riflettere, nella speranza che questi errori non si ripetano più, ed insegnino ai nostri figli che le guerre non servono a nulla,  il prezzo pagato di vittime e di vedove è stato troppo alto, tutti lavoriamo a un progetto di pace, affinchè tutto questo non si possa ripetere.

di Antonio Gentile