Via Poma, il 7 agosto 1990 l’omicidio di Simonetta Cesaroni.

Processi, sentenze, un suicidio, condanne e assoluzioni. Sono passati 28 anni da quel 7 agosto 1990 quando, in una Roma semideserta, una ragazza di 21 anni viene trovata morta, massacrata con 29 fendenti, negli uffici in via Carlo Poma, 2.

Via Poma, il 7 agosto 1990 l’omicidio di Simonetta Cesaroni.

LA RUBRICA SCOMPARSI è da molti amici letta per i fatti che vengono raccontati anche nei minimi particolari, ricordare a volte rattrista, ma spesso ci apre la mente a non dimenticare, perché a volte diventano vere e proprie storie di racconti giallo.

Il racconto giallo è basato sulla narrazione di fatti (delitti, crimini) sui quali indaga un investigatore, rappresentato da un poliziotto o un detective, magistratura o spesso anche da una una scrittrice, da un qualsiasi personaggio dotato di acume e capacità di osservazione, in tal modo si ha la percezione di “toccare” la materia e non risulterà più un’argomentazione astratta e noiosa.

Oggi parleremo del caso per eccellenza misterioso e irrisolto, fatto di un’incredibile ed effimera violenza, il “caso di Simonetta Cesaroni”.

Doveva essere l’ultimo giorno di lavoro in quell’ufficio. Se fosse riuscita a smaltire tutte le pratiche, come aveva intenzione di fare, non sarebbe più tornata al terzo piano di quello stabile del quartiere Prati, così fuori mano per lei che abitava in periferia. L’assassino, probabilmente, lo sapeva, e ha scelto proprio l’ultimo giorno per incontrare Simonetta, tentare di violentarla e poi ucciderla con una violenza inaudita. Il terzo delitto a scopo sessuale scoperto a Roma in pochi giorni s’è consumato nel pomeriggio di martedì L’autopsia accerta che la morte è avvenuta il (7 agosto 1990), fra le 17,30 e le 18,30. Simonetta Cesaroni, 21 anni, è stata ammazzata con 29 coltellate nell’ufficio dove stava lavorando a Via Carlo Poma, due passi da piazza Mazzini.

Da allora, la domanda è sempre la stessa: chi l’ha uccisa?   il suo corpo viene ritrovato prima di mezzanotte dalla sorella Paola che, preoccupata, va nell’ufficio insieme al fidanzato e al datore di lavoro di Simonetta. La ragazza ha subito 29 colpi di tagliacarte, tutti profondi 11 centimetri: alcuni l’hanno colpita al cuore, altri alla giugulare e alla carotide. Ma a ucciderla è stato un trauma alla testa.

Dal mese di luglio le era stato affidato il compito di curare, con un computer, la contabilità dell’Associazione italiana alberghi per la gioventù, con sede in Via Poma, in un grande stabile dell’epoca fascista, lo stesso dove tre anni fa è stato girato il film Mignon è partita. Andava lì un paio di volte alla settimana, di pomeriggio, e avrebbe finito il lavoro proprio l’altra sera, o al più tardi ieri mattina. Poi se ne sarebbe andata in vacanza con un’amica. Martedì, poco prima delle 15, ha salutato la madre nella casa dove abitava coi genitori e la sorella Paola, di 27 anni, al quartiere Centocelle. Ha preso la sua 126, è arrivata alla fermata della metropolitana e poi, col mezzo pubblico, è approdata in via Poma.  Con le chiavi che le avevano affidato è salita negli uffici dell’Associazione, vuoti come tutti i pomeriggi. Solo il mercoledì, lì, c’è qualcuno dopo l’ora di pranzo. E l’assassino, quasi certamente, lo sapeva. Alle 17,30 ha parlato al telefono con un’amica. Subito dopo, il dramma.

L’autoposia ha stabilito che Simonetta Cesaroni è morta intorno alle 18. I due cancelli che bisogna superare per entrare nel palazzo, a quell’ora, erano aperti. L’assassino ha bussato alla porta dell’ufficio, Simonetta ha aperto. Non si sa se abbia chiesto prima «chi è?», sulla porta non c’è lo spioncino. L’omicidio è avvenuto in una stanza diversa da quella in cui la vittima stava lavorando, la più lontana dall’ingresso: forse Simonetta ha tentato un’inutile fuga che s’è conclusa nell’ultimo rifugio possibile.  Lì la vittima è stata spogliata, le scarpe se l’è probabilmente tolte da sola, visto che erano in un angolo e non c’erano tracce di sangue, il resto dei vestiti l’assassino se l’è portati via. Addosso a Simonetta sono stati trovati solo il reggiseno calato e un paio di calzettoni. L’autopsia ha decretato che la ragazza non è stata violentata, ma in faccia ha delle ecchimosi provocate da pugni. E poi ventinove ferite di arma da taglio, profondità media undici centimetri, che hanno trapassato il cuore, la giugulare, l’aorta, il fegato e tutto il resto del corpo. Una violenza inaudita, a cui l’assassino ha dato libero sfogo dopo aver immobilizzato a terra Simonetta.

Sui fianchi la ragazza aveva due grossi lividi, provocati forse dalle ginocchia del suo carnefice; due coltellate sono state inferte anche intorno agli organi genitali. Niente stupro, dunque, né sodomizzazione, come qualcuno aveva detto. Secondo il medico che ha svolto l’autopsia l’assassino potrebbe aver tentato di violentare la vittima senza riuscirci, e quindi s’è lanciato nel massacro. Con sufficiente freddezza, l’assassino s’è poi pulito forse con gli stessi abiti di Simonetta, s’è dato una sciacquata nel bagno e poi è uscito chiudendo a chiave la porta dell’ufficio. In portineria tutti dicono di non aver visto niente.

Tre giorni dopo il delitto viene arrestato Pietro Vanacore, il portiere dello stabile nel quartiere Prati, ritenuto reticente dagli inquirenti: è l’ultima persona ad aver visto Simonetta viva e sembra contraddirsi agli interrogatori. L’ipotesi è che abbia tentato di violentarla e l’abbia uccisa. Ma le perizie scientifiche smontano la tesi.

L’11 marzo 1992 un commerciante tedesco di nome Roland Voller rivela ai magistrati che un 21enne, Federico Valle, sarebbe stato in via Poma all’ora del delitto e sarebbe tornato a casa con un braccio sanguinante: il sospetto è che abbia ucciso Simonetta perché amante del padre Raniero e che sia stato aiutato dal portiere dello stabile. Ma il sangue di Valle non corrisponde a quello ritrovato su una porta.

Ma non si esclude l’ipotesi del maniaco. Gli interrogati raccontano di una ragazza di bella presenza («assomigliava a Marcella, la cantante»), vestita come tante sue coetanee (qualcuno ha detto «in maniera provocante» con un po’ di malizia), per la quale mai si sarebbe immaginata una simile fine. Ma dai verbali saltano fuori anche nuovi particolari. Come quello di due ruote della 126 di Simonetta squarciate qualche tempo fa, sotto l’ufficio di via Poma. Un gesto di rabbia dell’assassino, magari per i decisi rifiuti di Simonetta, prima che esplodesse la follia omicida?

Di errori tuttavia ne verranno fatti tanti, anche se scavando emergeranno diversi particolari anche sul fidanzato della vittima, Raniero Busco. Quest’ultimo verrà infatti processato ventidue anni dopo l’orrendo omicidio, ma verrà assolto nel 2012. E questo nonostante alcuni risultati scientifici, ricorda Il Corriere della Sera, dimostreranno che il DNA estratto dalla saliva e ritrovato sui reperti della vittima corrisponde a quello di Raniero. L’accusa però farà emergere il pensiero di Simonetta su quell’uomo di quattro anni più grande di lei. “Sei un lurido verme schifoso“, scrive in una sua missiva al fidanzato. “Non credevo che saresti arrivato a tanto“. Secondo la ricostruzione infatti, la loro relazione era costellata di maltrattamenti. Simonetta si sentiva trascurata, come scrive nelle pagine del suo diario, ma si convince a proseguire il rapporto per via di quell’amore che voleva disperatamente.

Diciotto anni dopo, il 9 marzo 2010, Vanacore si uccide: mancano tre giorni alla sua deposizione in aula nel processo a carico di Raniero Busco, all’epoca fidanzato di Simonetta. Un evento che spinge l’opinione pubblica a chiedersi: ha portato con sé un segreto inconfessabile o è stato vittima di “20 anni di martirio”, come lascia scritto in un biglietto trovato nella sua auto. Nel 2014 la Cassazione assolve Busco, in primo grado condannato a 24 anni, poi assolto in Appello: è il 26 febbraio 2014 quando la Suprema Corta conferma l’assoluzione.

Abbiamo voluto ricordare il caso irrisolto di Simonetta, una ragazza normale che forse si è trovata nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, i genitori e gli inquirenti“cercano ancora una verità che ormai appare lontana, anche se non impossibile, per uno dei casi più misteriosi della storia recente della cronaca nera italiana”.

di Antonio Gentile