Il Papa proclama 7 nuovi santi, tra loro Paolo VI e Romero: ma è anche alla ricerca dell’identikit del successore.

Il pontefice riformista e il vescovo martire, ma anche un ragazzo di 19 anni. Cerimonia in San Pietro davanti a 70mila fedeli, ma la Chiesa è anche in cerca di un Paolo VII. Bergoglio delinea l’identikit del successore. Dopo gli “atti dovuti” di Roncalli e Wojtyla, quella di Montini è la prima canonizzazione “politica” di Francesco.

Il Papa proclama 7 nuovi santi, tra loro Paolo VI e Romero: ma è anche alla ricerca dell’identikit del successore.

Sette nuovi santi per la Chiesa cattolica. Papa Francesco li ha proclamati questa mattina in Vaticano davanti a settantamila fedeli nel corso di una cerimonia solenne a cui ha preso parte anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. A essere iscritti “nell’Albo dei Santi” ci sono anche Paolo VI, il pontefice che ha traghettato la Chiesa nella modernità con le riforme del Concilio Vaticano II, e monsignor Oscar Romero, il vescovo salvadoregno difensore dei poveri ucciso dagli squadroni della morte mentre celebrava la messa nella cappella di un ospedale nel 1980.

Chi sono i sette nuovi santi:

PAPA PAOLO VI (1897-1978) – Giovanni Battista Montini fu grande timoniere del Concilio Vaticano II, padre del Sinodo dei vescovi. Grande novità introdotta da lui furono i viaggi apostolici nelle diverse parti del mondo e le udienze generali del mercoledì, catechesi continua per il Popolo di Dio.

OSCAR ROMERO (1917-1980) – Sacerdote salvadoregno trucidato dagli squadroni della morte mentre celebrava la messa, a causa delle denunce delle violenze della dittatura militare del suo Paese.

DON FRANCESCO SPINELLI (1853- 1913) – Nel periodo della post-unità si attivò a favore delle ragazze indigenti e diede vita a scuole, oratori, assistenza ai malati, ai disabili, agli anziani soli.

VINCENZO ROMANO (1751-1831) – Visse nella seconda metà del ‘700 a Torre del Greco, protagonista della rinascita materiale, spirituale e morale del napoletano dopo l’eruzione del Vesuvio del 1794.

MADRE MARIA CATERINA KASPER (1820-1898) – Tedesca nata nel 1820 che trascorse l’adolescenza nei campi, spaccando pietre per la costruzione di strade e fondò l’Istituto di suore a servizio delle classi sociali più umili, le ‘Povere Ancelle di Gesù Cristo’.

MADRE NAZARIA IGNAZIA DI SANTA TERESA DI GESÙ MARCH MESA (1889-1943) – Nata a Madrid, nel 1926 diede vita alla Congregazione delle Suore Missionarie Crociate della Chiesa, per il servizio dei poveri e la promozione della donna.

NUNZIO SULPRIZIO (1817-1836) – Nel 1836 morì a Napoli a soli 19 anni di tubercolosi ossea a causa del lavoro troppo pesante, affrontando la malattia con fede. Fu beatificato da Paolo VI il 1 dicembre 1963, durante il Concilio Vaticano II.

L’OMELIA – E nell’omelia papa Bergoglio ha voluto lanciare un monito ricordando che “dove si mettono al centro i soldi, non c’è posto per Dio e non c’è posto neanche per l’uomo”. Cristo, ricorda il Pontefice, “non fa teorie su povertà e ricchezza, ma va diretto alla vita. Ti chiede di lasciare quello che appesantisce il cuore, di svuotarti di beni per fare posto a Dio, unico bene. Non si può seguire veramente Gesù quando si è zavorrati dalle cose. Perché, se il cuore è affollato di beni, non ci sarà spazio per il Signore che diventerà una cosa tra le altre”.  Per questo, “la ricchezza è pericolosa e rende difficile persino salvarsi. Non perché Dio sia severo, no! Il problema è dalla nostra parte: il nostro troppo avere, il nostro troppo volere ci soffocano il cuore e ci rendono incapaci di amare”, sottolinea il Papa ricordando come ammoniva San Paolo che “l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali”.

Francesco ha quindi ricordato la figura di Paolo VI, che “ha speso la vita per il Vangelo di Cristo, valicando nuovi confini e facendosi suo testimone nell’annuncio e nel dialogo, profeta di una Chiesa estroversa che guarda ai lontani e si prende cura dei poveri”. “E’ bello – ha poi aggiunto il Papa – che insieme a lui e agli altri santi e sante odierni ci sia monsignor Romero, che ha lasciato le sicurezze del mondo, persino la propria incolumità, per dare la vita secondo il Vangelo, vicino ai poveri e alla sua gente, col cuore calamitato da Gesù e dai fratelli.

Lo stesso possiamo dire di Francesco Spinelli, di Vincenzo Romano, di Maria Caterina Kasper, di Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù e anche del nostro ragazzo napoletano Nunzio Sulprizio, il santo giovane che ha saputo incontrare Gesù nell’offerta di se stesso. Tutti questi santi, in diversi contesti, hanno tradotto con la vita la Parola di oggi, senza tiepidezza, senza calcoli, con l’ardore di rischiare e di lasciare. Fratelli e sorelle, il Signore ci aiuti a imitare i loro esempi”.

Ma non è mancato nemmeno una riflessione sulla Chiesa stessa. “Senza un salto in avanti nell’amore la nostra vita e la nostra Chiesa si ammalano di autocompiacimento egocentrico: si cerca la gioia in qualche piacere passeggero, ci si rinchiude nel chiacchiericcio sterile, ci si adagia nella monotonia di una vita cristiana senza slancio, dove un po’ di narcisismo copre la tristezza di rimanere incompiuti”, ha aggiunto il pontefice.  Jorge Mario Bergoglio e Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini: Goethe le chiamerebbe affinità elettive, operative anche tra i pontefici. Chimica spirituale profonda che unisce personalità opposte, umanamente agli antipodi, e allestisce un composto insolito ma solido, resistente al tempo e alle intemperie.

Il Papa della piazza e quello del palazzo. Il prete delle “villas miserias”, le baraccopoli di Buenos Aires, e il monsignore della Terza Loggia, il piano alto della Segreteria di Stato. La stanza dei bottoni e le stanze dei barboni.

Amore postdatato, in apparenza impossibile, che riscuote il dazio e si fa spazio impassibile, quarant’anni dopo, nella memoria dei cuori e alla gloria degli altari. Dimensioni parallele che si sfiorano e sforano, significativamente, una nell’altra. Finestre temporali che si schiudono e affacciano solenni nell’abbraccio, caldo, del colonnato berniniano. Paesaggio e assaggio dell’ottobre romano. Temperatura estiva e prospettiva d’autunno, dolce al palato e retrogusto amaro.

Popolarismo versus populismo. Aldo Moro e Perón. Riflessivo, democristiano e programmatore Paolo VI. Istintivo, bolivariano, trascinatore Francesco. La democrazia “formale” del discepolo di Maritain, amico dei costituenti e teorico appassionato di un disegno di libertà. E la democrazia “sostanziale” del teologo del pueblo, nemico delle disparità stridenti e impegnato ad includere coloro che rimangono fuori.

Complementari e reciprocamente indispensabili. Accomunati però dal dubbio. Discernimento che si fa tormento e li avvicina molto più di quanto l’indole li separi. Allontanandoli da Benedetto e Giovanni Paolo, assertori tenaci e audaci di certezze.

Dopo l’atto dovuto di Roncalli e Wojtyla, santificati congiuntamente, in automatico, sulla spinta di un moto che ascende dal basso, quella di Montini costituisce invece la prima canonizzazione “politica” di Bergoglio, voluta, pilotata e fortemente auspicata dall’alto.

Già, politica, come lo furono a riguardo le ripetute aperture a sinistra di Paolo VI: a beneficio dei socialisti nostrani, dei rivoluzionari sudamericani e terzomondisti afroasiatici, dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est.

Similmente, in diverso frangente, non hanno mancato del resto di provocare scandalo e contestazioni a destra: come Paolo VI, nella primavera del 1978, quando “in ginocchio” si rivolse ai rapitori di Moro: “Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse … pur sempre amandovi”. O Francesco, che sulle rive del Giordano, dove il cielo si aprì per parlare agli uomini, ha definito i terroristi “povera gente criminale”, pregando per loro con lo slancio e l’abnegazione di un Dostoevskij.

Garbatamente estremi, al dunque: nei gesti di apertura e di chiusura. Decentrati dal comune sentire ma in ultima istanza “umili” accentratori del potere. Portati ad annullarsi o ad innalzarsi con identica, educata determinazione.

Centralisti e democratici, verrebbe da dire, mutuando un’antinomia d’annata del dizionario politologico. Sinceri sostenitori del sinodo e della collegialità episcopale, ma insieme difensori severi del vincolo gerarchico di autorità. Ossia della subordinazione alla “potestà piena, suprema e universale” del vescovo di Roma. “Virtù” coltivata e collaudata nei corpi specialistici di rispettiva provenienza: segnatamente la diplomazia ecclesiastica e la Compagnia di Gesù.

Santificando Paolo VI, Francesco non depone il passato in una teca, benché sacra, ma dispone una ipoteca sul futuro. Ancora oscuro. Ai suoi occhi, Montini non rappresenta solo il prima, quanto piuttosto il dopo.

Il prima: con la valorizzazione del cattolicesimo latino-americano e la profezia della globalizzazione, premesse remote del papato extraeuropeo. Ma anche il dopo, all’indomani del big bang innescato e dei processi avviati da Bergoglio, che alla stregua di Giovanni XXIII ha scosso “ab imis” le fondamenta dell’edificio e al netto della riforma di curia, in dirittura di arrivo, tramanderà comunque un cantiere aperto. Sul piano teologico e pastorale, geopolitico e istituzionale.

Basti pensare al summit inedito dei presidenti degli episcopati, attesi a Roma in febbraio. Assemblea che al pari degli “stati generali”, quand’anche convocata sul tema specifico e congiunturale degli abusi, strutturalmente contiene in sé la carica generalista e imprevedibile di un concilio. Postulando sin d’ora l’esigenza, nel lungo periodo, di una figura ordinatrice, in grado di razionalizzare e stabilizzare, incanalare e navigare alla guida della barca di Pietro l’onda crescente delle novità suscitate da Francesco.

Un ruolo che si attaglia perfettamente al “sapiente timoniere” bresciano, abile a rallentare senza perciò arretrare. A virare senza cedere alle sirene, reazionarie o rivoluzionarie che fossero, quando davanti a lui si profilavano gli scogli e le secche di una società “secolarizzata e ostile”, come Bergoglio ebbe a evidenziare già quattro anni orsono, nell’omelia di beatificazione. Concetto ribadito e rilanciato oggi, nell’omaggio al “profeta di una chiesa estroversa, che guarda ai lontani e si prende cura dei poveri”.

Le affinità, così, da elettive si fanno elettorali e offrono discreta, concreta indicazione al prossimo conclave, tracciando l’identikit di un “Paolo Settimo”. Senza urgenza, però in modo chiaro, manifestando una preferenza, o esternando una necessità, per la successione. Tra corsi e ricorsi storici. Paesaggi ecclesiali e passaggi epocali. Autunni romani e primavere globali.

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redatto da Antonio Gentile