Salvini come Mussolini ? La tentazione di forgiare gli italiani o solo un modo di fare ?

Il leader della Lega cita Mussolini: «Tanti nemici tanto onore». E in un’intervista al Sunday Times, sulla Brexit, incita il premier britannico: «May sia più dura con l’Europa».

Salvini come Mussolini ? La tentazione di forgiare gli italiani o solo un modo di fare ?

di ANTONIO GENTILE * www.ilpopolo.news * www.democraziacristianaonline.it *

Ora come allora, ossia ai tempi de Duce,  si ripercorrono alcuni stati di razzismo: lo dimostra anche il comportamento provocatorio di Salvini che pubblica su Twitter un articolo che racconta delle critiche nei suoi confronti e scrive, in una pausa dalle sue vacanze sulla costa romagnola:«Tanti nemici, tanto onore!».

Frase che non passa inosservata, perché fa parte dell’armamentario verbale di mussoliniana memoria.

Matteo Orfini lo invita a chiedere scusa o a lasciare il ministero e Nicola Zingaretti spiega che «Salvini cita Mussolini per coprire il fallimento del governo».

Il «Secolo d’Italia» precisa che la frase non è filologicamente corretta perché Mussolini «disse molti nemici, non tanti nemici».

Salvini non è nuovo alla citazione. Rivendicò la frase quando fu pronunciata da Carlo Ancelotti, rivolta ad Arrigo Sacchi. Allora il calciatore spiegò che Mussolini non c’entrava nulla e che la frase fu pronunciata da Cesare ad Alesia, contro i galli.

In realtà, la frase originaria risalirebbe al 1513 e sarebbe stata pronunciata dal condottiero tedesco Georg von Frundsberg.

Comunque sia, Salvini l’ha usata di recente in polemica con il fumettista Zero Calcare. E, tra le altre frasi mussoliniane, non si è fatto mancare anche «chi si ferma è perduto», detta durante le trattative con M5S.

La fede si dimostra cambiando i propri istinti e sacrificando la ragione ai dogmi: fu questo il senso di provvedimenti irreali e insieme formalissimi, come il passaggio dal «lei» al «voi» (più consono alla vena maschia del regime e scevro dal «servilismo» del «lei»); il «passo romano», che imponeva ai soldati italiani, dalle gambe mediamente corte, un’imitazione del «passo dell’oca» dei più longilinei tedeschi.

Nel quadro della «fascistizzazione integrale» si inserì anche la scelta razzista, solo in parte stimolata dall’alleanza con la Germania e dal problema di doversi distinguere, dopo la conquista dell’Etiopia, da una popolazione «inferiore» e dalla pelle scura.

Popolo tradizionalmente non razzista, gli italiani si limitavano a una sorta di diffidenza pregiudiziale sugli ebrei, insufflata dalla Chiesa. Erano stati i papi a creare i ghetti, a imporre agli ebrei di portare un cappello giallo, a fare mestieri umilianti come quello degli stracciaroli, odiosi come quello degli usurai.

Dall’Ottocento era la gesuitica Civiltà cattolica a infierire su di loro. Il razzista Roberto Farinacci poté dichiarare: «Se, come cattolici, siamo divenuti antisemiti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli».

«È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti», dichiarava il Manifesto della razza, pubblicato il 14 luglio 1938 da un gruppo di modesti studiosi. Fino a quel momento il regime era stato piuttosto indifferente ai problemi della razza, a parte le remore naturali di un movimento nazionalista. Mussolini non era antisemita e come lui moltissimi gerarchi. Quasi nessuno credette davvero alla «differenza biologica»: riviste come “La difesa della razza”, di Telesio Interlandi, rappresentavano soltanto il fanatismo di qualche intellettuale.

Nella logica del fascismo, però, il razzismo era uno strumento per «forgiare» – verbo che allora piaceva molto – i nuovi italiani: che dovevano sentirsi geneticamente superiori agli altri popoli, quindi dovevano eliminare ogni possibile «contaminazione», come quella ebraica.

Il primo settembre 1938 venne istituito presso il ministero degli Interni il Consiglio superiore per la demografia e per la razza; lo stesso giorno si stabiliva con un decreto legge che gli ebrei residenti in Italia da dopo il 31 dicembre 1918 dovevano andarsene; veniva revocata la cittadinanza italiana agli ebrei stranieri che l’avevano ottenuta dopo quella data. A tutti venne vietato di porre la propria residenza entro i confini del regno, agli italiani furono vietati i matrimoni con gli ebrei e ai dipendenti statali con qualsiasi straniero. Venne vietato di accogliere nelle scuole gli studenti ebrei, di conferire incarichi e supplenze a docenti di razza ebraica, di usare libri di testo di autori ebraici, di accettare lasciti o donazioni per borse di studio da parte di ebrei; per non creare un analfabetismo razziale di Stato si istituirono sezioni particolari e a volte anche intere scuole per l’istruzione degli ebrei e si consentì agli universitari di terminare gli studi. Gli odiosi provvedimenti colpirono duecento insegnanti, 4.400 studenti elementari, mille delle medie e duecento universitari.

Le uniche personalità di spicco che avversarono davvero i provvedimenti furono Italo Balbo, Massimo Bontempelli e Filippo Tommaso Marinetti. Enrico Fermi, premio Nobel per la Fisica proprio nel 1938, avendo sposato un’ebrea lasciò per protesta l’Italia. Gli altri intellettuali e gerarchi si adattarono all’antisemitismo al pari del popolo, forse soltanto perché c’era qualcuno su cui riversare la responsabilità e il malcontento per la stretta economica subita con le guerre d’Etiopia e di Spagna, con le sanzioni imposte dalla Società delle nazioni. Chi disapprovava limitò il dissenso a episodi di pietismo individuale. Contro questo nemico si dettero i tre «poderosi cazzotti nello stomaco», secondo le parole del duce, dell’abolizione del «lei», dell’introduzione del passo romano e – appunto – del razzismo. È dunque errato il luogo comune per cui ai ripugnanti provvedimenti si arrivò per pedissequa imitazione della Germania nazista: facevano già parte della logica evoluzione del regime, e se influenza ci fu si dovette alla necessità di mettere l’Italia fascista al passo con i totalitarismi che sembravano sul punto di contendersi il mondo, quello hitleriano ma anche quello staliniano.

Oltre ai «fascisti religiosi» anche molti giovani furono entusiasti. Cresciuti nel regime, suggestionati dalla propaganda, dagli esempi delle guide intellettuali e politiche, vennero affascinati soprattutto dalla visione di una nuova cultura in funzione antiborghese che sarebbe nata dal concetto di razza: solo dei «puri» e dei «forti» potevano permettersi di sentirsi razzialmente superiori. Alla borghesia era piaciuto il fascismo perché condivideva i suoi stessi valori (Dio, patria, famiglia), l’aveva difesa dagli attacchi del proletariato e – almeno così si faceva credere – dagli interessi del grande capitale. Le era piaciuto essere titillata nell’orgoglio nazionalistico e nei propri meriti di buon comportamento civile: non le poteva piacere, adesso, venire indicata – senza avere cambiato il proprio modo di essere, anzi avendo fatto sempre quel che il regime voleva – come la bestia nera del fascismo, da combattere e rieducare. La guerra alla borghesia, lo staracismo e l’assurda pretesa di intervenire in ogni aspetto della vita privata furono – più del razzismo – un vero e proprio boomerang per il regime: insieme all’alleanza con la Germania e alle difficoltà economiche danneggiarono il miraggio di rifondazione del fascismo e del popolo italiano dopo la conquista dell’impero, compromettendo il consenso accumulato.

Il leader della Lega, nonché vice premier e ministro dell’Interno, non ci sta a farsi attribuire il termine di “razzista” e spiega che il suo è un modo giusto per combattere quella parte malata degli immigrati e si sofferma sui molti casi di questi giorni di aggressioni e spari contro persone di colore e nega ogni allarme e ogni responsabilità: «Aggredire e picchiare è un reato, a prescindere dal colore della pelle di chi lo compie, e come tale va punito. Ma accusare di razzismo tutti gli italiani e il governo in seguito ad alcuni limitati episodi è una follia».

E aggiunge: «Ricordo che i reati commessi ogni giorno in Italia da immigrati sono circa 700, quasi un terzo del totale, ed è questo l’unico vero allarme reale contro cui da ministro sto combattendo».

Reati, che secondo i dati ufficiali del Viminale, sono in costante calo.

di Antonio Gentile