Noi clochard, il popolo invisibile: l’esistenza disagiata dei senzatetto.

Ci sono condizioni di vita che scarnificano, abradono via ogni scorza di menzogna, buona o cattiva, ogni ipocrisia di protezione, ogni manierismo di facciata. A volte la chiamano follia, tanto è acida la verità che ci viene posta davanti senza filtri . Viaggio nella vita dei Clochard.

Noi clochard, il popolo invisibile: l’esistenza disagiata dei senzatetto.

Per scelta di vita o per costrizione degli eventi della vita, sono costretti a vivere una vita disagiata, qualcuno li chiama clochard, altri barboni anche se sarebbe un termine da scartare perché è politicamente e più umanamente corretto usare senzatetto, ma non rende appieno l’idea.
Qualunque termine si voglia usare, al giorno d’oggi ci sono parecchie persone in precarie condizioni di vivibilità, quelli che non trovano di meglio che un cartone per potersi riparare dal freddo durante il riposo notturno trascorso su una panchina o sotto i portici.

Strisciare per terra con vergogna. Inginocchiarsi sotto i portici della strada del passeggio con le mani sporche e tese nel gesto di chiedere la carità. Sfidare la notte che si fa gelida. E la neve, che cade in continuazione, ma non è né dolce né tantomeno poetica tra ragazze eleganti e cavalieri galanti. Ma senza cuore. Questa è la storia di un viaggio dei disperati nelle città, fatto da chi sfila ridendo davanti agli ultimi, per andare a cena al ristorante. Abituata o disinteressata verso chi ha soltanto un cartone su cui dormire. Il freddo è il nemico numero uno per questi disagiati. Si era accennato ad un progetto di assistenza contro il freddo, ma i recenti ritrovamenti di cadaveri fa pensare che quel progetto non sia andato in porto. Su internet esistono alcuni blog che denunciano la poca dignità, la poca attenzione che il mondo della politica ha dato nei confronti di questo problema.
Così sono le istituzioni locali, come alcuni Comuni, o assistenziali, come la Croce Rossa, a preoccuparsene mettendo a disposizione tende da campo riscaldate per offrire un minimo di riparo, un minimo di dignità a chi vive per strada. Oppure alcune parrocchie sono organizzate per offrire ai clochard un piatto di minestra calda ed un pezzo di pane per sfamarli.

Il senzatetto appartiene ad una “popolazione” affacciata sul vuoto a ridosso di un abisso pieno di dolore e povertà. Sono molti uomini e donne che vivono in Italia: si stima siano 90.000 unità che hanno costruito un mondo invisibile dove quasi mai si fanno vedere, tranne quelli che chiedono l’elemosina.
I clochard non amano esporsi alla luce, forse perché privi di ombra, forse perché hanno vergogna di mescolarsi agli altri, i cosiddetti “normali”.
Sono infagottati di stracci, carichi di sacchetti al cui interno c’è tutta la loro “ricchezza”, quello che racimolano in giro come scarti di cibo, stracci, scarti inutilizzati dalla società e cartoni per ripararsi. Vite prive di qualsiasi cosa, materiale o affettiva, non hanno nessun punto di riferimento se non una panchina o un portico per passare la notte.
Vite di uomini e sempre più di donne, molti di loro anziani, ma sempre più spesso anche di giovani.
Vite di persone che hanno scelto un’esistenza basata sulla libertà, ma soprattutto di persone ammalate, disconosciute dai familiari, tossicodipendenti, ex carcerati o pazienti dimessi dai manicomi.
Ci sono però anche disoccupati, immigrati, sfrattati, emarginati per gli innumerevoli casi della vita.

Tutte queste categorie di persone cadute in disgrazia sono uno scossone al nostro intorpidito senso di giustizia. Sono costretti ad umiliarsi per chiedere un pezzo di pane oppure qualche spicciolo, poiché dalla vita, nella loro vita, non hanno ricevuto nulla, oppure il destino ha voluto prendersi gioco di loro, volontariamente o meno.
A loro difesa, spesso basterebbe poco per restituirgli dignità, un senso per vivere: un lavoro per il disoccupato, una cura per chi è ammalato o drogato, una stanza per chi la casa l’ha persa.

Vita da clochard. Perché?

“Forse troppi hanno ancora, delle persone senza fissa dimora, un’immagine o di clochard che hanno scelto una vita libera lontana dagli schemi che la società ci impone, o di fannulloni che non hanno voglia di fare nulla e si accontentano di vivere alla giornata”. Cosa fa nascere la tesi : L’emarginazione grave, la riflessione sociologica sul fenomeno dei senza fissa dimora, dedicata proprio al tema dell’emarginazione sociale portata al limite.

Molti fatti hanno evidenziato che le persone senza dimora sono coloro che hanno perduto nel corso del tempo i legami sociali significativi, che si trovano in precarie condizioni materiali di esistenza e che hanno abbandonato l’uso prevalente dell’abitazione.

Rotture biografiche più o meno grandi hanno contraddistinto l’esistenza di queste persone: dalla morte di un figlio alla separazione coniugale, dal vizio del gioco a quello dell’alcool e della droga, da problemi con la giustizia alla perdita del lavoro”.

La perdita di una rete di sostegno familiare e sociale può condurre un soggetto svantaggiato a diventare una persona senza fissa dimora. Le persone che arrivano a diventare dei “senza dimora” sono spesso persone con fragilità psichiche, anziani abbandonati, giovani disadattati, depressi alcolisti, immigrati con difficoltà”.

In questa tesi si affronta in generale il tema dell’emarginazione, cercando di darne una definizione, e individuarne le cause, e poi si concentra su alcuni importanti interrogativi a cui cerca di dare una risposta: “come si genera e come si perpetua la realtà di chi si trova ad essere gravemente emarginato, senza reddito né casa, sempre più “barbone” e sempre meno cittadino? Il barbone è un campione di libero individualismo o una vittima rassegnata in attesa di aiuto?”.

Rimanere senza casa non significa soltanto non avere un tetto sotto il quale ripararsi. Significa soprattutto, essere privati della propria “dimora” che è molto di più dell’abitare: è quello spazio di relazioni, di rapporti interpersonali che consentono alla persona di “vivere” un territorio, di sentirsene parte integrante e vitale; è lo spazio “antropologico” dove la persona, la famiglia o il gruppo vivono le loro relazioni, la loro storia e si sentono parte di quel luogo. Essere senza casa significa, per molte persone, non essere più neppure “dimora a se stessi”? perdendo così la propria identità.

La Democrazia Cristiana si adopera spesso e si è sempre messa a disposizione venendo in aiuto al problema della povertà, facendo, attraverso le molte associazioni di volontariato, la raccolta dei banchi alimentari, supportati a volte dalle diocesi e parrocchie e spesso con l’autorevole Caritas. Ma il problema va risolto a monte, un uomo diventa barbone perché la società non lo aiuta a risolvere il problema e a volte lo spinge in mani sbagliate, cadere in disgrazia non è una scelta di vita di un essere vivente ma solo una brutta circostanza che molte persone non vorrebbero mai avere a che fare.

di Antonio Gentile