Né democratica, né fondata sul lavoro

Né democratica, né fondata sul lavoro

Tutti conoscono la frase con cui esordisce la Costituzione della Repubblica Italiana, frase sottintesa del resto nel titolo di questo pezzo.
La Costituzione, dicevamo, pubblicata per la prima volta il I° gennaio 1948, tracciò le basi fondamentali per ottenere un corretto funzionamento della nascente macchina statale. Al di sopra di qualsiasi altro fattore, furono da una parte la creazione di uno stato realmente democratico, e dall’altra la notevole diffusione del lavoro a rivelarsi gli elementi più importanti per realizzare, insieme ad un certo benessere, pure un allentamento delle tensioni sociali e politiche ancora presenti nel paese.
Purtroppo, dopo meno di cinquant’anni, il crollo della cosiddetta Prima Repubblica portò al collasso di quasi tutti i partiti costituenti e alla comparsa di nuove formazioni politiche non propriamente aderenti ai principi sanciti dalla Carta Costituzionale stessa. A tutto ciò, conseguì (non solo in Italia, invero, ma in quasi tutto il mondo civile) sia l’entusiastica adesione ai principi economici liberisti (Il cosiddetto “Libero Mercato”), sia l’adozione “a scatola chiusa” dei dogmi della “Globalizzazione”, con la nefasta delocalizzazione degli impianti produttivi in quei paesi nei quali la manodopera era meno costosa, e, sempre per questa via, si arrivò inoltre ad un grave deprezzamento locale delle retribuzioni, alla luce della grande offerta di lavoro a tariffe assai ridotte, da parte degli immigrati presenti sul suolo italiano. Questo, sommato con il progresso tecnologico registratosi in tutte le fabbriche ed in tutti i siti lavorativi, produsse risultati che andarono, e vanno tutt’ora, in senso decisamente contrario all’aumento dell’occupazione. È noto a tutti, infatti, che la maggiore efficienza delle macchine industriali, l’informatizzazione, la robotizzazione, e quant’altro, riducono sempre più il bisogno di operatori umani nei luoghi di lavoro, e che, come se non bastasse, l’esosità fiscale degli ultimi governi, strangolando migliaia di piccole e medie imprese ogni mese, ha cantato, e continua a cantare stolidamente la sua “messa da morto” alla nazione, mentre la finanziarizzazione dei capitali, mirati soltanto a speculazioni borsistiche e che non saranno mai reinvestiti in imprese creatrici di manodopera, hanno prodotto, insieme agli altri fattori prima citati, la rovina che è sotto gli occhi di tutti : un tasso nazionale di disoccupazione, giovanile ma non solo, pari a quello dei paesi in via di sviluppo. Quindici milioni di persone (su 60) in totale povertà o alle soglie di essa. Il quasi completo “schiacciamento” dei livelli retributivi del ceto medio, che ormai può anch’esso dirsi “proletariato”. La scarsità di lavoratori attivi, inoltre, farà il resto: favorirà la stipula di contratti di lavoro con retribuzioni sempre più basse, e metterà in moto una spirale perversa, che negherà le pensioni ai giovani d’oggi, decurtandole implacabilmente pure ai pensionati di vecchia data. Infine, la brutale riduzione della massa di denaro circolante farà scempio del 95% degli italiani e dello stesso Stato, finché non rimarranno che povertà , disperazione, disoccupazione e totale assenza di democrazia.
Mi fermo qui, anche se molti altri fattori potrebbero essere portati a suffragio delle mie argomentazioni.
Bene…! Viste le questioni sopra discusse (anche se, necessariamente, esaminate di corsa), cosa suggerire al movimento democratico-cristiano, in termini di politica economica, per una più massiccia affermazione della Democrazia e per un deciso miglioramento delle condizioni sociali e reddituali degli italiani?
Facciamo alcune ipotesi:
Riavviare le grandi opere pubbliche con fondi statali e progettare di nuove.
Tassare pesantemente i patrimoni ed i capitali di pura speculazione.
Ridiscutere il concetto di globalizzazione.
Abbassare le tasse, per le imprese ed i cittadini, fino a portarle ad aliquote facilmente sopportabili.
Estendere in alto il livello di reddito non tassabile.
Rivedere le norme sui contratti lavorativi e quelle che regolano le pensioni.
Impiegare la forza lavorativa degli immigrati in occupazioni produttive che non sottraggano nulla agli italiani, ma che trasformino il mero assistenzialismo oggi imperante in qualcosa di utile per il nostro paese.
Ma, soprattutto, rimettere infine l’uomo al centro del nostro mondo, della politica e dell’economia, di tutto.