A 30 anni dalla morte di Enzo Tortora, per lui ancora nessuna giustizia.

Trent'anni fa moriva Enzo Tortora, vittima di una mostruosa macchinazione giudiziaria per la quale nessuno ha pagato, oggi la scena non cambia per molte altre persone.

A 30 anni dalla morte di Enzo Tortora, per lui ancora nessuna giustizia.

Trent’anni fa Enzo Tortora moriva stroncato da un tumore. Un anno prima, la Cassazione lo aveva assolto dall’accusa di essere uno spacciatore di droga affiliato alla Nuova Camorra Organizzata. Un incubo che il celebre conduttore e autore Tv definì “una bomba dentro”. Una macchinazione giudiziaria per la quale, ancora oggi, lui e i suoi familiari non hanno avuto giustizia.

Trent’anni fa Enzo Tortora moriva stroncato da un tumore. Un anno prima la Cassazione lo aveva definitivamente assolto dall’infamante accusa di essere un “cinico mercante di morte”, uno spacciatore di droga, affiliato alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. “Mi hanno fatto scoppiare una bomba dentro”, aveva detto, proclamando invano la sua innocenza. Per il pubblico ministero napoletano Diego Marmo, “Più si cercavano le prove della sua innocenza, più si trovavano quelle della sua colpevolezza”. Balle. Non avevano trovano (e neppure cercato) un bel nulla. Tutto si reggeva sulla parola di due falsi pentiti: uno psicopatico, Giovanni Pandico; e Pasquale Barra detto a ragione ‘o animale: in carcere aveva ucciso il gangster milanese Francis Turatello e dopo averlo sventrato ne aveva addentato le viscere. Poi, a ruota, erano venuti un’altra ventina di “pentiti”: tutti a raccontare balle una più grande dell’altra, per poter beneficiare dei vantaggi concessi ai “pentiti”.

Accuse che poi, con fatica e con pazienza sono state smontate: ma non da chi aveva il compito di vagliare le accuse, e con attenzione firmare i mandati di cattura; dalla difesa di Tortora si era fatta una vera e propria contro-inchiesta, che aveva smontato, letteralmente, l’inchiesta della procura napoletana. Un autentico, vero scandalo per il quale nessuno poi ha pagato: non i falsi “pentiti”; non i magistrati della pubblica accusa, che anzi, tutti hanno fatto carriera.

Tortora invece patisce una lunga carcerazione; un alone di sospetto duro a morire. Al suo fianco i radicali di Marco Pannella che lo eleggono al Parlamento Europeo (poi si dimette, rinunciando all’immunità); Leonardo Sciascia, Piero Angela, Enzo Biagi, Indro Montanelli, pochi altri. All’inizio, almeno: che poi tanti cosiddetti “eroi della sesta giornata” si sono affrettati a giurare e spergiurare sulla sua innocenza; e molti fino a qualche ora prima avevano giurato sulla sua colpevolezza.

Sono passati trent’anni dalla morte di Enzo. Ucciso ad appena 59 anni da quel tumore a cui non è estranea l’ingiusta persecuzione. Trent’anni non sono pochi, anche se non sono molti. Sono comunque sufficienti perché il ricordo della sua vicenda si scolorisca, se ne smarrisca la memoria.

E’ dunque importante non dimenticare, continuare a ricordare che il “caso” Tortora non è solo il “caso” Tortora, ma è il “caso” Italia: il caso della giustizia negata, del diritto calpestato, della conoscenza che non abbiamo, che ci viene impedita.

Con Tortora non si deve dimenticare che le carceri italiane sono ancora luogo, realtà, che ci umilia in Europa e ci condanna, per la sofferenza umana che patiscono detenuti, agenti di custodia, personale della comunità penitenziaria.

Con Tortora non ci si deve dimenticare che ogni anno nelle prigioni italiane ci sono una cinquantina di suicidi, e un centinaio i detenuti morti per varie ragioni che non sono la vecchiaia.

Con Tortora non ci si deve dimenticare che la cattiva giustizia per magistrati che hanno sbagliato in modo clamoroso, come nel “caso” di Tortora dal 1992 ad oggi è costata oltre 600 milioni di euro. E per contro quasi mai il magistrato colpevole viene sanzionato; e quando rarissimamente accade, è poco più di un buffetto sulla guancia.

Credo di essere stato tra i primi a capire, il giorno stesso del suo arresto, che c’era qualcosa che non andava nell’“affaire” Tortora, quando veniva esibito come un mostro, e di una mostruosità era invece vittima; mostruosità che poteva essere vista, ma non la si voleva vedere. Serviva non vederla.

Per il “TG2” una volta ho intervistato la figlia di Tortora, Silvia.

Intervista istruttiva: quando Tortora venne arrestato, cosa c’era oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra? “Nulla”.

E’ stato pedinato, controllato? “No”.

Intercettazioni telefoniche? “No”.

Ispezioni bancarie? “No”.

Definito “cinico mercante di morte”, su quali prove? “Nessuna”.

Qualcuno ha chiesto scusa a suo padre? “Nessuno”.

Gli accusatori hanno pagato per le loro false accuse? “No”.

Tutto questo non va dimenticato. Non va dimenticato che si vuole uscire da quella condizione di illegalità costituita dalla irragionevole durata dei processi, per cui l’Italia viene condannata a ripetizione dalle giurisdizioni europee. Così accade che ogni anno centinaia di migliaia di procedimenti anche gravi vanno i fumo per prescrizione, amnistia di classe di cui beneficia chi si può permettere un bravo avvocato.

Sono sicuro che se non fosse morto ucciso da quella “bomba” che gli hanno fatto scoppiare Tortora sarebbe ancora impegnato come lo furono Sciascia e Pannella, nella lotta per la conquista del diritto umano alla conoscenza, per lo stato di diritto e contro la ragione di stato; per la giustizia giusta, il diritto, il diritto al diritto. Ed è per quell’impegno che Tortora va ricordato. Sciascia ha dettato un’epigrafe per la tomba di Tortora: “Che non sia un’illusione”.

dal web di Antonio Gentile