Seveso : quel giorno del 10 luglio 1976 c’era il sole, poi solo una nube…

Nel 1976 dallo stabilimento chimico che produceva insetticidi e diserbanti si sprigionò una nube tossica di diossina. Molti giovani non sanno neppure cosa sia: è la stessa sostanza usata come defoliante in Vietnam. Dalla notte del 10 luglio di 42 anni fa tutto cambiò.

Seveso : quel giorno del 10 luglio 1976 c’era il sole, poi solo una nube…

Il 10 luglio di quarantadue anni fa vi fu un grave incidente nell’azienda chimica ICMESA tra Seveso e Meda, in provincia di Monza e Brianza, che causò la fuoriuscita di una nube di diossina: è considerato il più grave disastro ambientale mai avvenuto in Italia, citato e raccontato anche dai giornali internazionali. Quello che avvenne spinse l’Unione Europea a cercare una politica comune per prevenire e affrontare i grandi rischi industriali: nel 1982 venne approvata una direttiva chiamata “direttiva Seveso” che impone da allora agli stati membri di identificare gli stabilimenti a rischio e di stabilire una serie di rapporti periodici e piani di intervento in caso di emergenza.

Il 10 luglio del 1976
L’ICMESA (Industrie Chimiche Meda Società Azionaria) era un’industria chimica che aveva un grande stabilimento a Meda, al confine con il comune di Seveso: lavorava prodotti chimici di base e prodotti farmaceutici. La principale azionista di ICMESA era la svizzera Givaudan & C. che nel 1963 venne comprata dalla multinazionale Hoffman-La Roche, con sede a Basilea. Già alla fine degli anni Quaranta l’ICMESA aveva avuto difficili rapporti con i sindaci di Meda e Seveso e con le persone che vivevano nella zona a causa dei gas, degli odori, degli scarichi e dell’inquinamento delle falde acquifere di cui in molti ritenevano responsabile proprio la fabbrica. Nel 1974 il direttore tecnico dell’ICMESA fu denunciato per aver «corroso ed adulterato acque sotterranee destinate alla alimentazione rendendole pericolose per la salute pubblica». Dopo una serie di analisi la Provincia confermò le accuse, ma il direttore fu assolto per «insufficienza di prove».

Il 10 luglio del 1976 era un sabato e in fabbrica era presente soltanto il personale di manutenzione. Alle 12.37 il sistema di controllo di un reattore chimico andò in avaria e la temperatura salì oltre i limiti previsti. L’alta temperatura provocò una reazione che portò a sua volta alla formazione di TCDD, uno dei tipi di diossina più tossici e pericolosi e che da quel momento in Italia è conosciuta come “diossina Seveso”. La TCDD fuoriuscì nell’aria e si disperse trasportata dal vento verso sud-est. La nube tossica colpì i comuni di Meda, Seveso, Cesano Maderno e Desio.

Il sindaco di Seveso fu avvisato da due tecnici solo il giorno dopo. L’ufficiale sanitario il giorno dopo ancora. La certezza della fuoriuscita di TCDD fu confermata il 14 luglio, dopo una serie di analisi fatte nel laboratorio della società dell’ICMESA in Svizzera, ma le comunicazioni da parte della dirigenza continuarono ad essere molto prudenti e la notiziadivenne pubblica solo una settimana dopo. L’ICMESA venne chiusa il 18 luglio e durante i primi giorni dall’incidente vennero presi cauti provvedimenti: vennero affissi dei manifesti per avvisare i cittadini di Meda e Seveso di non toccare ortaggi, terra, erba, animali e «di mantenere la più scrupolosa igiene delle mani e dei vestiti». Solamente quattordici giorni dopo la fuoriuscita della nube tossica, cominciarono le evacuazioni e furono stabiliti divieti più severi per i cittadini.

Il territorio di Seveso (il più colpito) fu suddiviso in tre zone in base al livello di contaminazione della terra: le case comprese nella zona più contaminata furono demolite, le piante investite dalla nube morirono e migliaia di animali contaminati furono abbattuti. Il terreno di questa zona venne prelevato e depositato in due enormi vasche di contenimento costantemente monitorate in cui vennero messi anche i macchinari usati per le demolizioni e gli scavi: venne portata nuova terra proveniente da zone non inquinate e furono piantati nuovi alberi che hanno dato origine al Parco naturale Bosco delle Querce. Le due vasche sono monitorate ancora oggi, per evitare il rischio di ulteriori contaminazioni, quasi 700 persone in totale vennero sfollate nei giorni successivi all’incidente in due hotel di Bruzzano e Assago e poterono rientrare a casa solo tra l’ottobre e il dicembre del 1977. Circa 240 persone vennero colpite da cloracne, un’eruzione cutanea.

Senza web, ma il Time lo associò a Chernobyl

Molti articoli si susseguono nei giorni successivi. Allora non esistevano é Sky News né la Cnn né i siti online dei quotidiani per seguire in tempo reale la situazione, ma i media classici ne hanno parlato in tutto il mondo, con qualche latenza all’inizio, ma con attenzione crescente nei periodi successivi e a distanza di tempo. La rivista Time, in un articolo del 2010, in occasione dello sversamento di petrolio da una piattaforma nel Golfo del Messico, ha stilato una classifica dei peggiori disastri ambientali del secolo, inserendo l’incidente di Seveso dopo altri come quello nucleare di Chernobyl (1986), la perdita di gas con i morti di Bophal in India (1984) e il naufragio della petroliera Exxon Valdez nel golfo d’Alaska (1989).

disinfestazione area a rischio

Le conseguenze
Dopo il disastro fu aperto un processo sia penale che civile dalla Regione Lombardia e dalla Procura della repubblica di Monza contro l’ICMESA. Il 25 marzo del 1980 venne raggiunto un accordo e la società proprietaria dell’ICMESA versò 103 miliardi e 634 milioni di lire: in questa cifra era previsto un rimborso per lo Stato e la Regione Lombardia per le spese di bonifica. Venne costituita una Fondazione per la ricerca (la Fondazione Lombardia per l’Ambiente) ma dalla transazione rimasero esclusi eventuali danni successivi. I danni subiti dai privati furono liquidati direttamente dalla multinazionale per una spesa complessiva di circa 200 miliardi di lire.

Dopo l’accordo vi furono molte critiche perché secondo molti aveva in qualche modo favorito i proprietari dell’ICMESA evitando un processo. Nel 2015 il Comitato 5D (che riunisce migliaia di persone che vivono nelle zone colpite dalla diossina) ha presentato al Tribunale di Monza una citazione nei confronti della Givaudan, in quanto responsabile del disastro di Seveso. Nella causa, ancora in corso, sono coinvolte 10.174 persone.

Nel 1976 l’aborto in Italia era vietato, ma il 7 agosto del 1976 l’allora ministro della Sanità Luciano Dal Falco e quello della Giustizia Francesco Paolo Bonifacio ottennero il consenso del Presidente del consiglio Giulio Andreotti per autorizzare aborti terapeutici per le donne della zona che ne avessero fatto richiesta. L’iniziativa provocò un ampio dibattito sull’interruzione di gravidanza in cui intervennero direttamente la Chiesa e diversi giornali cattolici e di destra. I radicali e l’Unione donne italiane organizzarono una campagna perché fosse permesso alle donne incinte di Seveso e della zona di abortire, i militanti di Comunione e Liberazione contattarono direttamente le circa 400 donne incinte nei centri di raccolta degli sfollati mostrando loro foto di feti e facendo propaganda antiabortista. L’allora cardinale di Milano, Giovanni Colombo disse: «Plaudendo all’offerta generosa di alcuni coniugi che si sono dichiarati pronti ad adottare un bambino nato deforme, invitiamo tutte quelle coppie che si sentono di fare altrettanto a darne indicazione a noi o ad altri».

Meda – operai davanti alla fabbrica chiusa

A distanza di 42 anni dal disastro, l’area di maggior contaminazione non è neanche lontanamente riconoscibile, trasformata in un bellissimo parco pieno di alberi e prati. Dopo il 1976 infatti, tutte le abitazioni situate nella zona di maggior contaminazione sono state rase al suolo, ed il terreno in una superficie di decine di ettari è stato asportato per 46 centimetri in profondità, rimpiazzato con terreno proveniente da aree non inquinate. Anche lo stabilimento dell’ICMESA non c’è più, ed oggi l’unico indizio che ne ricorda l’antica collocazione è un cartello: “via Icmesa”, al confine fra il comune di Meda e quello di Seveso.

IL PRESENTE TRA MEMORIA E FUTURO – Oggi l’Icmesa non esiste più: della fabbrica dei veleni resta solo un muro. Il nome “Icmesa” vive ancora, però, in quello della via dove si trovava lo stabilimento, e dove sono state costruite delle piscine e un centro sportivo. E la diossina continua a fare paura, minacciando un territorio che è stato in parte bonificato, ma che non sarà mai possibile ripulire del tutto. A ricordarlo, in un paese che sembrava aver scelto di dimenticare, è stata paradossalmente un’altra minaccia ambientale, quella di un’autostrada: la contestatissima Pedemontana. Il progetto originario prevedeva infatti che il tracciato autostradale passasse sul Bosco delle Querce: una manovra che non solo avrebbe cancellato un’area verde importante, ma che avrebbe anche rischiato di causare una nuova catastrofe diossina, riportando alla luce il materiale contaminato del 76.

Modificato il progetto su pressione degli ambientalisti, primi fra tutti quelli di Insieme in rete, il nuovo tracciato richiedeva comunque degli accertamenti, come evidenziato dal Cipe, perché avrebbe attraversato i comuni toccati dal disastro Icmesa. Nessuno si è potuto dire davvero sorpreso quando i carotaggi della scorsa estate hanno dimostrato che il terreno dove sarebbe dovuta passare Pedemontana contiene quantitativi di diossina superiori al limite consentito: per proseguire con il cantiere, la società avrebbe dovuto provvedere alla bonifica, che si preannunciava costosa e complessa. Schiacciata dai debiti e abbandonata dagli azionisti, Pedemontana (forse) sta fallendo: ma fino a quando non sarà stata pronunciata ufficialmente la parola fine, l’autostrada continua a minacciare il fantasma di una seconda contaminazione ambientale, a quasi mezzo secolo di distanza. Perché la diossina, come il mostro di un romanzo di Stephen King, non muore mai: può solo nascondersi sotto terra, in attesa che qualcuno la risvegli.

di Antonio Gentile