CULTURA DELLA VITA E CULTURA DELLA MORTE

CULTURA DELLA VITA E CULTURA DELLA MORTE

Recita la didaché  “Vi sono due vie, una della vita e l’altra della morte”.  

Queste due vie oggi dividono la società in due parti che si contrappongono agitandosi in dibattiti accesi che però non portano da nessuna parte. Vedere per esempio la discussione sull’aborto provocata dal manifesto pro-life spostarsi nel giro di un giorno sulla questione della libertà di pensiero la dice lunga sulla poca volontà di aprirsi veramente al confronto che rimane sempre molto superficiale.
Dovremmo focalizzare la nostra attenzione sulle cause profonde che portano ad accettare soluzioni estreme come aborto, eutanasia, sterilizzazioni di massa e alte pratiche inumane che scaturiscono dalla cultura del benessere, la quale nasconde le miserie umane dietro il paravento del progresso e della civiltà.

Per duemila anni l’Occidente cristiano è stato caratterizzato dalla cultura della vita che difende la dignità di ogni essere umano qualsiasi sia la sua condizione vitale, crescendo però nel proprio grembo una cultura mortifera per la quale esistono vite immeritevoli di  essere vissute perché qualitativamente inferiori.

Se analizziamo gli indicatori che i fautori della cultura della morte usano per stabilire il livello di qualità della vita di un essere umano ci imbattiamo nel desiderio del singolo individuo di sfuggire le responsabilità, di non affrontare ostacoli di nessun tipo, di non soffrire insomma.

Siamo alle solite, l’uomo, creatura imperfetta ed egoista, resta vittima delle logiche di mercato che da una parte hanno spazzato i legami forti tipici della famiglia tradizionale sostituendola nella sua funzione sociale con soluzioni individualistiche e dall’altra hanno lasciato solo l’individuo di fronte ai problemi esistenziali. Non c’è da meravigliarsi se l’uomo infragilito dalla società del consumismo, vuole consumare subito anche la soluzione dei propri problemi, giungendo quindi all’espediente apparentemente più efficace ed efficiente: la “morte”.

Pur essendo comprensibile la volontà umana di non voler patire o veder patire sofferenze, c’è da dire che il concetto di “debolezza” è troppo vago e per questo si rischia seriamente di estendere in modo incontrollato la categoria di persone che non meritano di vivere.

Insomma il bisogno di estendere la propria libertà o sarebbe meglio dire il proprio edonismo e amplificare il proprio stato di benessere mette in moto un processo che inizia con la accettazione del fatto che ci sono vite che tutto sommato possono finire anche in modo non naturale, soprattutto nei casi come quelli dei malati terminali, per poi allargarsi agli individui che non sono produttivi o utili alla società.

E’ questa la deriva che va fermata e la politica deve fare la propria parte. E’ inutile continuare a parlare del problema demografico che è solo la conseguenza di un malessere etico che ormai sta mandando in cancrena tutta la società.

E’ facile elaborare leggi sulle disposizioni anticipate di trattamento, piuttosto che rielaborare il concetto di famiglia e lavorare su politiche sociali serie per proteggere malati, bambini abbandonati, e soggetti deboli. Solleticare l’egoismo umano con l’illusione che abortire, morire prima per non soffrire siano diritti è da irresponsabili. La battaglia che la Democrazia Cristiana dovrebbe intestarsi è una battaglia di civiltà insieme agli amici del popolo della famiglia per contrastare “I segni di una cultura chiusa all’incontro,… che gridano nella ricerca esasperata di interessi personali o di parte, nelle aggressioni contro le donne, nell’indifferenza verso i poveri e i migranti, nelle violenze contro la vita dei bambini sin dal concepimento e degli anziani segnati da un’estrema fragilità” come esorta Papa Francesco.